Capitolo
13
Eccomi
al mio signore e padrone.
Anche
oggi, come sempre, ma con nel cuore alcuni interrogativi e tanta
ansia.
Il mio padrone infatti vuole conoscere l'anima più
profonda del suo servo e mi interroga sui motivi che mi portino
deliberatamente a farmi squarciare i miei delicati capezzoli dalle
sue forti mani.
E il dolore che provo è ben chiaro al mio
signore, lui stesso ne è l'artefice o meglio il carnefice.
Lei,
mio signore, spreme la mia materia di servo, e sente le mie mani che
afferrano le sue forti braccia per trovare il coraggio di sopportare
il male che in quel momento sto subendo in silenzio.
Eppure,
nonostante la sofferenza fisica sia atroce, io apro la mia maglia e
porgo i miei capezzoli al mio padrone con docilità.
Addirittura
oso accompagnare le sue dita su quel patibolo di sangue che è il mio
petto.
E vorrei poter mentire al mio principe, magari inventando
un senso logico, ma sono il suo schiavo ubbidiente e cerco con lei i
motivi reali e ciò che mi induce a questo supplizio
volontario.
Ormai i miei capezzoli sono sempre sanguinanti e basta
poco per aprirli, così il dolore diventa presto folle e
intollerabile.
Ma non rinuncio e ancor più mi spingo verso le sue
dita per trovare un supplizio sempre più alto.
Un dolore che non
abbia fine.
Una ferita che non si rimargini mai.
Il
motivo...?
Forse il senso non esiste, oppure è il mio tributo di
sangue verso ciò che non sono né potrò mai essere.
Forse è la
mia inadeguatezza.
Forse il mio essere sbagliato a priori.
Forse
vedere il mio signore così uomo mi spinge ad abbracciare la
sofferenza come un martirio per chiedere inconsciamente perdono.
Ma
ciò che più conta è il dolore che desidero necessariamente.
Come
le sue urine, come le suole delle sue scarpe, come umiliarmi ai suoi
piedi.
Tutto ciò è simile e serve inevitabilmente perché io
viva fisicamente un dolore carnale.
Il vero perché, è da
ricercare lì.
È lì la radice più intima del mio tormento.
Un
male che mi divora e cerca di impossessarsi di me, crudelmente,
subdolamente.
Così, come ricerco in lei il mio supplizio, alla
stessa maniera invoco la protezione del mio signore e principe.
E
piango sul suo petto trovando conforto.
Ma questa difesa ha un
costo, un tributo da versare a lei, mio padrone.
E penso a quanta
rassegnazione mi induca a consegnare a lei la mia fragile vita senza
scudi a difendermi.
Così, con tragico abbandono.
Inoltre sento
che questa mia assurda perversione provoca in lei un lieto piacere,
che cresce voglioso in mezzo alle sue gambe.
Il godimento del mio
signore è la priorità della mia vita, pertanto non posso sottrarmi
a ciò che lo provoca, anche se ciò è per me doloroso e fonte di
sofferenza.
Il suo pene cresce e si esalta della mia
sudditanza.
Lo sento, è un piacere sadico il suo, che si completa
nel mio dolore masochista.
Sono le due facce della stessa
medaglia.
E io sono nudo davanti al mio signore e padrone.
Mi
consegno davvero senza riserve al dolore e alle sue mani che
amo.
Forse il mio dolore è il tributo che sento di dover pagare
per non essere alla sua altezza o perché mi accetti nonostante sia
consapevole di essere complicato e inadeguato.
Una sorta di
giocattolo rotto che, pur di restare nella camera del suo bambino, è
disposto ad essere fatto a pezzi e smembrato.
Ma
non può lasciare la stanza dei giocattoli, pena l'essere gettato
nella spazzatura.
Signore, perché penetrare così dolorosamente
in una profondità tanto oscura quanto è la mia mente?
Perché
curarsene?
Lei che è il mio padrone, goda e usi il mio corpo
finché potrà?
Perché voler capire ciò che senso non ha?
Io
sono suo ora.
E sono pronto ad accettare qualsiasi cosa pur di
avere anche solo un piccolo sorriso dal mio principe.
Goda del mio
servizio e del mio corpo, la prego.
Mi consumi fisicamente.
Mi
addomestichi per il suo piacere.
Mi schiacci a terra sotto i suoi
piedi, ed il mio amore per lei sarà sempre più grande.
Mi
distrugga mio signore, apra il mio corpo colpevole.
Fortunatamente
so che non lo farà mai, perché dentro al suo cuore io riesco a
vedere che è capace di provare amore.
E
mi illudo: forse un amore più grande del mare.
Chiedo
umilmente perdono per la libertà di queste mie tristi parole.
Schiavo
Luca
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